Foibe, il giorno del ricordo: testimonianze anche in Sicilia

Oggi, 10 febbraio, si commemorano quasi ventimila italiani torturati e uccisi dopo la seconda guerra mondiale. Il racconto del figlio di un esule istriano

10 Febbraio 2025

Oggi, 10 febbraio, è il giorno in cui si ricorda il massacro delle Foibe, in memoria dei quasi ventimila italiani torturati, uccisi e gettati nelle cosiddette foibe (profonde cavità molto diffuse nel Carso e nell’Istria) dalle milizie della Jugoslavia di Tito alla fine della Seconda guerra mondiale.

Anche in Sicilia ci sono testimonianze di una delle pagine più tragiche che riguardano il nostro Paese. “Considero questo giorno come una tappa di memoria che dà dignità ad una verità per decenni non raccontata. Allo stesso tempo, però, sono anche felice, perché in tanto odio e violenza, la mia famiglia ha vissuto anche una storia di eroismo”, commenta Riccardo Rossi, giornalista e volontario della Missione di Speranza e Carità di Palermo, insieme con la moglie, Barbara Occhipinti, sul sito https://mission.spaziospadoni.org/.

E racconta: “Il mio prozio Giordano Paliaga, fratello di mia nonna Maria, che era stato partigiano contro i nazi-fascisti, venne a sapere che sua sorella e i suoi figli piccoli, Arturo (che poi è divenuto mio padre) e Pierina, sarebbero stati uccisi e buttati nelle foibe; lui riuscì ad avvertirla in tempo e così lei riuscì a scappare con i bambini. Maria, istriana, era sposata con il soldato italiano Ubaldo Rossi; dovette lasciare la casa e il lavoro nel panificio della madre Santa (che furono poi confiscati) ma mise in salvo la sua vita e quella dei figli, cosa non da poco. Fu un gesto eroico quello di Giordano che, pur sapendo che metteva a rischio la sua vita per avvisare la sorella con i figli, non indugiò neanche un istante”.

Arturo poi crebbe e mise su famiglia sposando Antonia. Con lei ebbe tre figli, tra cui proprio Riccardo. “Arturo portava in sé tutto il dolore del ricordo dell’avere lasciato la sua casa natale da piccolo, la sofferenza di un padre che lo martirizzava fisicamente e che lo aveva fatto crescere in un istituto minorile. Tutto questo malessere accumulato lo ha poi scaricato su di me e su mio fratello Maurizio, secondogenito. Ogni giorno, tornava tardi e nervoso a casa, ci rompeva i giocattoli, ci picchiava, ci malediceva e ci umiliava; dopo 47 anni, abbiamo scoperto che prima di rientrare andava a trovare la sorella e i cuginetti”.

“Ogni giorno era un tormento, fino alla fine dell’adolescenza – racconta Riccardo Rossi – Crescendo, nei suoi discorsi, percepivo tanto dolore, perché non poteva più tornare nella sua città, Rovigno di Pola in Istria, perché essendo stato anche lui un soldato italiano non era gradito. Quando leggeva la sua tessera di riconoscimento, in cui si evinceva che era nato a Pola, in Jugoslavia (ora Croazia), vedevo lo smarrimento nei suoi occhi; lui si definiva italiano e non iugoslavo!”.

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