La cenere lavica può essere un’opportunità anziché un problema? Se ne parla da anni e l’università di Catania è impegnata in diversi progetti sul riutilizzo. Eppure quando l’emergenza scema e l’Etna torna tranquillo, le istituzioni tendono a dimenticarsi che servono risposte strutturali e non emergenziali.
Tra le sperimentazioni in atto una riguarda il dipartimento di Agraria dell’ateneo: usare la cenere come materiale per la fitodepurazione. Il progetto si chiama Agritech ed è stato finanziato con fondi del Pnrr. E i risultati sono incoraggianti.
Alla cittadella universitaria di Catania sono state collocate otto colonne con quattro materiali di scarto diversi: nelle prime due è stata introdotta la cenere vulcanica di diverse dimensioni, nella terza sfabbricidi resti di demolizione e nella quarta un composto di biochar con cenere vulcanica, un geopolimero realizzato con la collaborazione del dipartimento di Geologia.
“In queste colonne, attraverso una pompa di rilancio, arrivano le acque reflue del nostro dipartimento – spiega la ricercatrice Alessia Marzo – che vengono filtrate dai materiali di scarto che abbiamo selezionato”. I risultati sono positivi. “Con un metro di cenere vulcanica rimuoviamo il 99,9 per cento dell’escherichia coli, quindi dal punto di vista microbiologico otteniamo un’acqua adatta a irrigare le colture arboree”.
Altro aspetto importante è che questi materiali, essendo altamente performanti, permettono di ridurre lo spazio necessario per gli impianti di fitodepurazione che solitamente richiedono grandi superfici, risultando quindi potenzialmente molto utili nei centri abitati di piccole e medie dimensioni. “Entro un anno – sottolinea Giuseppe Cirelli, docente di Agraria responsabile del progetto – avremo i primi risultati definitivi”.